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Proximity Talks: la difficile strada verso la pace

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COLLOQUI INDIRETTI E MEDIAZIONE AMERICANA

Il 9 Maggio 2010 Saeb Erakat, capo negoziatore palestinese, ha ufficialmente dichiarato l’avvio dei cosiddetti “Proximity Talks” fra israeliani e palestinesi. Si tratta di colloqui “indiretti” che non prevedono – almeno per il momento – un faccia a faccia fra Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, e Mahmoud Abbas, presidente palestinese. Il dialogo fra le due parti sarà reso possibile dalla mediazione degli Stati Uniti nella persona di George Mitchell, inviato speciale per il Medio Oriente.

Sulla carta i “Proximity Talks” dureranno quattro mesi ed entrambe le parti si augurano che si possano presto trasformare in colloqui diretti. Tuttavia si registra grande sfiducia bipartisan sul buon esito di quest’operazione diplomatica e sono molti i punti su cui ancora non si trova un accordo.

La proposta di avviare dei colloqui indiretti è partita dall’amministrazione americana e ha ricevuto il beneplacito della Lega Araba e dell’OLP.

Netanyahu ha accettato di aprire dei “colloqui indiretti” con l’unico obiettivo di giungere al più presto a un confronto diretto con la leadership palestinese: secondo gli israeliani infatti solo in questo modo si potrà arrivare ad un’intesa per la pace. Il primo ministro israeliano non ha accettato che venissero imposte delle precondizioni all’apertura dei negoziati: tuttavia da dicembre 2009, sotto la pressione della comunità internazionale, ha avviato una moratoria di dieci mesi sulla costruzione di insediamenti di coloni in Cisgiordania. Gerusalemme è stata però tagliata fuori da questa decisione. A Marzo infatti il governo israeliano ha annunciato la costruzione di 1600 nuove unità abitative nel quartiere ultraortodosso di Ramat Shlomo, all’interno di Gerusalemme Est. L’annuncio, avvenuto durante una visita ufficiale del vicepresidente Usa Joe Biden, ha aperto una seria crisi diplomatica tra Washington e Tel Aviv che si è risolta solo con l’intervento di Mitchell nella regione.

Dal canto loro i palestinesi auspicano la costruzione di un loro Stato, sovrano ed indipendente, in  Cisgiordania ed a Gaza con Gerusalemme Est come capitale. Tuttavia si sono detti disponibili a fare alcune concessioni agli israeliani relativamente a parti dei Territori Occupati dove sorgono insediamenti di coloni.

Il dialogo politico fra le parti era sospeso dal Dicembre 2008, quando i negoziati fra Olmert, l’allora primo ministro israeliano, ed Abbas vennero interrotti dall’avvio dell’offensiva militare a Gaza, la c.d. operazione Piombo Fuso.

OSTACOLI E TENSIONI SULLA STRADA VERSO LA PACE

A minacciare il buon esito dei negoziati sono anche tensioni di ordine più generale che coinvolgono l’intera regione mediorientale. Il deterioramento dei rapporti fra Stati Uniti e Siria è solo uno dei tanti esempi. La Casa Bianca ha infatti rinnovato le sanzioni al regime siriano, nonostante i timidi tentativi di apertura e collaborazione avviati nell’ultimo anno. La questione di fondo è legata al supporto che la Siria dà a gruppi come Hezbollah ed Hamas, e l’ultimo casus belli in ordine di tempo è rappresentato dalla notizia della presunta vendita di missili Scud al gruppo scita.

Anche all’interno dello stesso universo politico palestinese persistono molti ostacoli alla buon riuscita dei negoziati: in primis la spaccatura, a livello di leadership, fra la Striscia di Gaza – controllata da Hamas – e la Cisgiordania – controllata da Fatah. A ciò si aggiunge la perdita di autorevolezza a cui Mahmoud Abbas è andato incontro da qualche tempo a questa parte (tra l’altro il suo mandato elettorale è ormai scaduto) e la strenua opposizione di Hamas ai negoziati (anche se la posizione di alcuni leader del movimento mostra alcuni segnali di apertura).”The Palestinian Authority needs to stop selling illusions to the Palestinian people,” Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha detto ai microfoni della CNN.

Anche all’interno dell’arena politica israeliana persistono molte incertezze: è parte della sua stessa coalizione ad esprimere pubblicamente la sua sfiducia nei colloqui indiretti e a non supportare l’azione diplomatica di Netanyahu.

IL PERCORSO VERSO I COLLOQUI INDIRETTI

Come anticipato poco sopra, i colloqui indiretti rappresentano la ripresa del dialogo politico fra israeliani e palestinesi dopo la rottura verificatesi nel dicembre 2008 con l’avvio dell’operazione militare “Piombo Fuso” all’interno della Striscia di Gaza.

L’amministrazione americana ha molto spinto affinchè le parti accettassero di riaprirsi a una qualche forma di confronto sui temi della pace. Il periodo che è intercorso tra la fine dell’offensiva israeliana nella Striscia (Febbraio 2009) e l’inizio ufficiale dei colloqui indiretti (Maggio 2010) è stato costellato da eventi importanti che hanno concorso in alcuni casi a mettere in discussione l’immagine di Israele all’interno della comunità internazionale.

Si pensi ad esempio al rinnovato slancio con cui la diplomazia americana si è dedicata al conflitto israelo-palestinese nell’ultimo anno; alla rigidezza che l’amministrazione Obama ha assunto nei confronti di certi temi come la questione degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati o al  celeberrimo Rapporto Goldstone, che ha suscitato tante polemiche all’interno della comunità internazionale.

“Sono convinto che il Presidente Obama voglia fare qualcosa di positivo: non sono sicuro che [il Congresso] gli permetterà di fare ciò che vuole” ha affermato il Presidente siriano Bashar al-Assadin una recente intervista.

Nonostante il generale clima di pessimismo che incombe sui negoziati, i paesi della Lega Araba hanno dichiarato che il loro appoggio ai colloqui indiretti è dovuto ad una serie di segnali positivi ricevuti dall’amministrazione americana.

OBAMA: COSTRUIRE UN DIALOGO CON IL MONDO MUSULMANO

Subito dopo la sua elezione a fine 2008, Obama ha cercato di aprire un nuovo canale di dialogo con il mondo musulmano. Durante il suo primo viaggio oltreoceano, ha tenuto importanti discorsi – sia ad Ankara che al Cairo – in cui ha messo a fuoco le linee guida di quella che sarebbe stata la sua politica in Medio Oriente. In queste occasioni, Obama ha cercato di lanciare un appello di pace al mondo musulmano moderato, sottolineando l’importanza della cooperazione e comprensione fra Oriente ed Occidente. E’ inoltre sceso brevemente nei dettagli di questioni spinose come l’Afghanistan, l’Iraq, la “minaccia” iraniana e il conflitto israelo-palestinese.

A questo riguardo, il Presidente degli Stati Uniti ha sempre indicato la soluzione dei “due Stati” come il compromesso ottimale per pacificare l’area. Inoltre ha chiarito la posizione americana su grandi temi quali il terrorismo e la questione degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati. Ha dato grande rilievo alla necessità che Hamas riconosca il diritto di Israele ad esistere e che i palestinesi abbandonino pratiche di resistenza fondate sulla violenza. D’altra parte ha affermato l’illegittimità della costruzione degli insediamenti israeliani – che tra l’altro mina progressivamente la prospettiva della soluzione a “due Stati”. Infine ha definito intollerabili le condizioni in cui versa la Striscia di Gaza ed ha dunque affermato la necessità di agire, pur nell’impossibilità di imporre dall’alto la pace.

RAPPORTO GOLDSTONE: CULTURA DELL’IMPUNITA’ O RESA DEI CONTI?

Mentre il Presidente degli Stati Uniti compiva il suo primo viaggio oltreoceano, cercando di porre le basi per un dialogo con il mondo musulmano, il 3 aprile 2009 il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite istituiva con la risoluzione S-9/1 una Fact Finding Commission avente il compito di investigare “tutte le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario eventualmente perpetrate a Gaza durante il periodo che va dal 27 dicembre 2008 al 18 Gennaio 2009″. La commissione, capeggiata dal giudice sudafricano Richard Goldstone (ebreo e sostenitore della causa sionista) ha avanzato numerose richieste di cooperazione ad Israele che sono state prontamente e ripetutamente declinate. Perciò ai membri è stato negato l’accesso sia in Israele che in Cisgiordania e l’ingresso nella Striscia è avvenuto attraverso il valico di Rafah, dalla frontiera egiziana.

La commissione ha esplorato le violazioni del diritto internazionale compiute in relazione ai civili, sia studiando report compilati da altri organismi che interagendo con una vasta gamma di interlocutori (vittime, testimoni, organizzazioni non governative, attivisti per i diritti umani, organismi delle Nazioni Unite). Il rapporto finale (costituito da 575 pagine) è stato pubblicato il 15 settembre 2009. In base a questo documento, sia Israele che i gruppi armati palestinesi si sarebbero resi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Le parti sono state invitate a svolgere delle indagini indipendenti ed interne sui fatti incriminati. Qualora non lo facciano, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite potrebbe deferire la competenza del caso alla Corte Penale Internazionale dell’Aja.

LE REAZIONI

Il rapporto è stato adottato dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nell’ottobre 2009 a maggioranza assoluta: dei 47 Stati membri, 25 hanno votato a favore, 6 contro (fra cui Italia e Stati Uniti), 11 si sono astenuti e 5 non hanno votato (inclusi UK e Francia). All’indomani dell’approvazione del rapporto, il ministro degli Esteri israeliano ne ha pubblicamente dichiarato la pericolosità, sottolineando che esso metteva a rischio sia il rispetto dei diritti umani secondo il diritto internazionale sia gli sforzi volti alla promozione della pace in Medio Oriente, incoraggiando le organizzazioni terroristiche su scala globale. In realtà le reazioni israeliane a questo rapporto sono state diversificate: la grande maggioranza dell’opinione pubblica ha percepito questo documento come sbilanciato, sottolineando soprattutto che è stato utilizzato un doppio standard nel valutare l’operato dell’esercito israeliano e di Hamas.

QUALE FUTURO PER IL RAPPORTO GOLDSTONE?

Richard Goldstone, in un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, ha affermato che lo scopo della Fact Finding Commission è stato quello di esplorare il modo in cui la guerra era stata condotta: dall’analisi dei fatti, emergeva che erano state commesse atroci violenze ai danni dei civili. La questione che rimaneva aperta era però se i fatti stessi fossero stati frutto di indisciplina all’interno dell’esercito israeliano o il risultato di ordini impartiti dall’alto. Proprio dinanzi a questo punto di domanda, l’istituzione da parte del governo di Tel Aviv di una commissione d’inchiesta indipendente si rendeva necessaria.

Con una risoluzione adottata nel Febbraio 2010, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dato ad Israele ed ai palestinesi 5 ulteriori mesi di tempo per investigare in modo indipendente, credibile ed interno i fatti e le violazioni riportate nel rapporto Goldstone. Molti temono che questa decisione possa condurre ad un progressivo insabbiamento del documento. Intanto all’inizio di Marzo il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione congiunta con cui afferma l’impegno dell’Unione Europea a sostenere il rapporto Goldstone e a monitorare l’implementazione delle misure in esso contenute.

PROXIMITY TALKS: DIFFICILE FARE PREVISIONI

Alcuni sostengono che l’amministrazione Obama abbia assunto una posizione meno accomodante delle amministrazioni precedenti rispetto al governo israeliano e che ciò abbia contribuito ad innescare un principio di dibattito sulle politiche israeliane all’interno dell’opinione pubblica americana. Ne sarebbero una conferma le aspre critiche che le potenti lobbies statunitensi pro-Israele hanno rivolto recentemente alla Casa Bianca. Secondo altri invece, l’interesse americano per il conflitto israelo-palestinese sarebbe  aumentato negli ultimi anni a causa della presenza di militari statunitensi nella regione mediorientale, in particolare in Afghanistan ed Iraq. Questa coincidenza renderebbe la soluzione del conflitto più urgente per Washington perchè la sua allenza storica con Israele potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza nazionale americana.

Si vocifera inoltre che se i proximity talks non riusciranno ad approdare ad alcun risultato, gli stessi Stati Uniti potrebbero proporre un proprio “piano per la pace” nella regione. Sembra anzi che lo stesso leader palestinese Abbas lo abbia richiesto, scontrandosi però con la dura opposizione israeliana.

A poco più di dieci giorni dall’avvio ufficiale dei Proximity Talks, la strada verso la pace sembra difficile ed irta di ostacoli, soprattutto a causa dell’esplosività dei fragili equilibri della regione. Questi “negoziati sui negoziati” si profilano come un’operazione diplomatica complessa: vedremo come la regia americana saprà gestire la situazione e se gli intenti di pace espressi da Obama si concretizzeranno in passi avanti significativi.

Inoltre i fatti di cronaca più recenti – l’uccisione di almeno 19 individui a bordo del convoglio umanitario della Freedom Flotilla – rimettono in discussione il dialogo politico appena riavviato tra israeliani e palestinesi, mantenendo a serio rischio la sicurezza di tutta l’area.

*Valentina Marconi è dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)

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