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Il futuro della Palestina: retti Ebrei contro nuovi Afrikaneer

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Fonte: http://www.thejerusalemfund.org/ht/d/EventDetails/display/ContentDetails/i/10418


Quella che segue è la trascrizione integrale del discorso pronunciato dal professor John J. Mearsheimer il 29 aprile 2010 a Washington, presso il Palestine Center. Si ringrazia l’Autore per aver segnalato e consentito la ripubblicazione di questo testo.

È un grande onore essere qui al Palestine Center per parlare alla conferenza intitolata ad Hisham Sharabi. Vorrei ringraziare Yousef Munayyer, il direttore esecutivo del Jerusalem Fund, per avermi invitato, oltre a tutti voi per essere venuti ad ascoltarmi questo pomeriggio.

L’argomento di cui tratto oggi è il futuro della Palestina, e con ciò intendo il futuro di quella terra tra il fiume Giordano ed il Mar Mediterraneo, una volta nota come Palestina Mandataria. Come saprete, quella terra è ora divisa in due: da un lato Israele vero e proprio, la cosiddetta “Linea Verde” d’Israele, dall’altro lato i Territori Occupati, che includono la Cisgiordania e Gaza. In sostanza, il mio intervento si concentra sul futuro dei rapporti tra Israele ed i Territori Occupati.

Ovviamente non parlerò semplicemente del destino di quelle terre, bensì anche del destino delle popolazioni che vivono in quei territori. Parlerò del futuro degli Ebrei e dei Palestinesi che sono cittadini d’Israele, così come dei Palestinesi che vivono nei Territori Occupati.

La storia che racconterò è semplice. Contrariamente ai desideri dell’amministrazione Obama e di molti Americani, inclusi molti Ebrei Americani, Israele non ha intenzione di permettere ai Palestinesi di ottenere un loro autosufficiente Stato in Cisgiordania ed a Gaza. Purtroppo, la soluzione dei due Stati è oggi pura fantasia. Al contrario questi territori saranno incorporati in un “Grande Israele” che assumerà le sembianze del Sudafrica dell’apartheid dominato dai bianchi. Nondimeno uno Stato ebraico fondato sull’apartheid non sarà politicamente sostenibile nel lungo periodo. Alla fine si trasformerà in uno Stato democratico bi-nazionale, dominato dai cittadini palestinesi. In altre parole, cesserà di essere uno Stato ebraico, il che significa la fine del sogno sionista.

Lasciatemi spiegare come sono giunto a queste conclusioni.

Viste le presenti circostanze, vi sono quattro possibili tipologie di futuro per la Palestina.

L’opzione che oggi attira maggiori attenzioni è la soluzione dei “due Stati”, ampliamente descritta dal Presidente Clinton alla fine del Dicembre 2000. Ovviamente tale opzione comporterebbe la creazione di uno Stato palestinese che conviva fianco a fianco con Israele. Affinché questo progetto sia sostenibile lo Stato palestinese dovrebbe controllare almeno il 95% o più della Cisgiordania e tutta Gaza. Inoltre vi dovrebbero essere scambi territoriali per compensare i Palestinesi di quei piccoli pezzi di Cisgiordania recentemente ottenuti da Israele. Gerusalemme Est diventerebbe la capitale del nuovo Stato palestinese. I parametri fissati da Clinton prevedevano alcune restrizioni concernenti la potenza militare di tale Stato, ma esso controllerebbe comunque le acque, lo spazio aereo sovrastante il territorio ed i propri confini, includendo la Valle del fiume Giordano.

Ci sono tre possibili alternative alla soluzione dei due Stati, e tutte e tre presuppongono la creazione di un Grande Israele, un Israele che controlli la Cisgiordania e Gaza.

Nel primo scenario, il Grande Israele diventerebbe uno Stato democratico bi-nazionale dove Palestinesi ed Ebrei godrebbero di eguali diritti politici. Questa soluzione è stata suggerita da qualche Ebreo e da un consistente numero di Palestinesi. Tuttavia, essa presupporrebbe l’abbandono dell’originale disegno sionista di uno Stato ebraico, dal momento che in questo Grande Israele i Palestinesi sarebbero numericamente superiori rispetto agli Ebrei.

Nel secondo scenario, Israele potrebbe espellere la maggior parte dei Palestinesi dal Grande Israele, preservando così il carattere ebraico dello Stato attraverso un palese atto di pulizia etnica. Questo è quello che accadde nel 1948, quando i sionisti cacciarono circa 700 mila Palestinesi fuori da quel territorio che divenne lo Stato d’Israele, impedendo poi loro di ritornare alle proprie case. Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele espulse tra i 100 mila ed i 260 mila Palestinesi dalla Cisgiordania appena conquistata, oltre ad 80 mila Siriani dalle alture del Golan. Tuttavia, questa volta l’ammontare delle espulsioni sarebbe anche maggiore, poiché ci sono circa 5 milioni e mezzo di Palestinesi che vivono tra il Giordano ed il Mediterraneo.

L’alternativa finale ai due Stati è rappresentata da una forma di apartheid, nella quale Israele aumenterebbe il proprio controllo sui Territori Occupati, lasciando ai Palestinesi limitata autonomia in una serie di scollegate ed economicamente compromesse enclavi.

Mi sembra chiaro che l’opzione dei due Stati sia la migliore tra tutte le alternative future. Questo non vuol dire che sia una soluzione ideale, poiché non lo è; ma è certamente il risultato maggiormente auspicabile per gli Israeliani, per i Palestinesi, nonché per gli Stati Uniti. Ecco perché l’amministrazione Obama è decisa a forzare in questa direzione.

Nondimeno, ora come ora, i Palestinesi non stanno certo per ottenere un loro Stato. Tutt’altro, essi stanno probabilmente finendo col vivere in una situazione di apartheid dominata dagli Ebrei israeliani.

La ragione principale per la quale la soluzione dei due Stati non è più un’opzione plausibile è l’opposizione di molti Israeliani ai sacrifici che sarebbero necessari per creare un vero Stato palestinese, e vi sono poche probabilità che essi abbiano un’epifania su quest’argomento. Tanto per iniziare, oggi vi sono circa 480 mila coloni nei Territori Occupati, oltre ad un’enorme rete d’infrastrutture e strade che collega i loro insediamenti con Israele. Molte di queste infrastrutture dovrebbero essere rimosse, nel caso fosse costruito uno Stato palestinese. Un consistente numero di coloni sicuramente si opporrebbe a qualsiasi tentativo di fare retromarcia sullo sviluppo degli insediamenti. All’inizio del mese, Ha’aretz ha riportato un sondaggio, svolto dall’Università Ebraica, secondo il quale risulta che il 21% dei coloni ritiene che “ogni mezzo deve essere usato per resistere all’evacuazione degli insediamenti in Cisgiordania, compreso l’uso delle armi”. Inoltre, lo studio ha rilevato che il 54% di quei 480 mila coloni “non riconosce l’autorità del governo nell’evacuazione degli insediamenti”; infine, anche se si tenesse un referendum che approvasse il ritiro dalla Cisgiordania, il 36% dei coloni non lo accetterebbe.

Questi coloni, comunque, non devono preoccuparsi circa un tentativo dell’attuale governo israeliano di rimuoverli. Il Primo Ministro Netanyahu è determinato ad espandere gli insediamenti a Gerusalemme Est ed in tutta la Cisgiordania. Ovviamente, egli, così come chiunque altro nel suo gabinetto, si oppone a concedere un vero Stato ai Palestinesi. Larry Derfner, opinionista per il Jerusalem Post, ha recentemente riassunto in modo molto succinto quale sia il pensiero di Netanyahu in materia: “per lui, dividere la terra, dividere Gerusalemme, cedere Hebron, far fare le valigie a 100 mila coloni, sarebbe un vero e proprio tradimento. Equivarrebbe ad un suicidio morale. Il suo cuore non lo può accettare; ogni cosa in lui rifugge questa possibilità. Il nostro Primo Ministro è costituzionalmente incapace di condurre la nazione fuori dall’intreccio palestinese, di combattere i coloni e la destra in una guerra civile virtuale o vera e propria, di persuadere gli Israeliani ad ammettere che sull’impresa cruciale della loro vita nazionale dei passati 43 anni, loro stessi avevano torto ed il mondo aveva ragione”.

Qualcuno potrebbe affermare che vi siano influenti Israeliani, come l’ex Ministro degli Esteri Tzipi Livni o l’ex premier Olmert, i quali sono sostanzialmente in disaccordo con Netanyahu ed invocano due Stati. Tuttavia, se questo è vero, dall’altro lato non vi sono elementi che portino a pensare che uno o l’altro abbiano i mezzi (od anche solo la volontà) per fare quelle concessioni che sarebbero necessarie per creare uno Stato palestinese legittimo. Certamente Olmert non fece nulla in questo senso quando era Primo Ministro.

Ma anche se avesse voluto, lui come chiunque altro leader in questa materia, avrebbe difficilmente ottenuto l’appoggio dei propri cittadini sulla soluzione dei due Stati. Nel passato decennio il centro di gravità politico d’Israele è slittato bruscamente verso destra ed attualmente non è presente alcun significativo partito politico pro-pace o movimento che possa rivelarsi d’aiuto in questa battaglia. Probabilmente il singolo indicatore che meglio fa intendere quanto a destra si sia spostato Israele negli ultimi anni è la scioccante nomina di Avigdor Lieberman a Ministro degli Esteri. Anche Martin Peretz del New Republic, il quale è ben noto per il proprio incondizionato supporto alle politiche d’Israele, ha descritto Lieberman come un “neo-fascista”, comparandolo all’ultimo fascista austriaco Jorg Haider. E vi sono altri soggetti nel governo Netanyahu che condividono le stesse visioni di Lieberman sul conflitto israeliano-palestinese; semplicemente essi sono meno schietti del Ministro degli Esteri.

Ed anche se qualcuno come Livni od Olmert fosse capace di metter assieme una coalizione di gruppi d’interesse o partiti politici favorevoli a concedere ai Palestinesi un proprio Stato, costui dovrebbe fronteggiare le significative forze che si collocano dietro Netanyahu oggi. È poi possibile, il che non significa sia probabile, che Israele s’imbarchi in una guerra civile se qualche leader futuro facesse un serio tentativo d’implementare la soluzione dei due Stati. Un individuo con il carisma di David Ben-Gurion o di Ariel Sharon, o anche di Yitzhak Rabin, potrebbe essere capace di affrontare gli oppositori di tale opzione, ma oggi non vi è nessuno con quella statura politica nel panorama israeliano.

In aggiunta a questi ostacoli pratici che impediscono la creazione di uno Stato palestinese, vi è anche un’importante barriera ideologica. Sin dall’inizio, il sionismo immaginava uno Stato d’Israele che controllasse tutta la Palestina Mandataria. Non vi era alcuno spazio per uno Stato palestinese nell’originale versione sionista d’Israele. Persino Yitzhak Rabin, che era determinato a far funzionare il processo di pace di Oslo, non parlò mai della creazione di uno Stato palestinese. Egli era semplicemente interessato a garantire ai Palestinesi qualche forma di limitata autonomia, qualcosa che chiamava “un’entità inferiore ad uno Stato”. Inoltre Rabin insisteva sul fatto che Israele dovesse mantenere il controllo sulla valle del fiume Giordano e che una Gerusalemme unificata dovesse divenire la capitale d’Israele. Ricordo anche che nella primavera del 1998 l’allora first lady Hillary Clinton venne aspramente criticata per aver detto che “sarebbe nell’interesse di lungo periodo della pace in Medio Oriente se vi fosse uno Stato palestinese, uno Stato moderno e funzionante con la stessa dignità degli altri Stati”.

Non fu prima che Ehud Barak divenisse Primo Ministro nel 1999 che i leader israeliani iniziarono a parlare apertamente della possibilità di uno Stato palestinese. Ma anche allora, non tutti pensavano fosse una buona idea e difficilmente qualcuno di essi appariva entusiasta. Anche Barak, il quale seriamente prese in considerazione la cosa nel luglio 2000 a Camp David, inizialmente si oppose agli Accordi di Oslo. Di più, egli è stato desideroso di diventare il Ministro della Difesa di Netanyahu, ben sapendo che il Primo Ministro ed i suoi alleati erano tutti contrari alla creazione di una Palestina indipendente. Tutto questo per sottolineare come i principi cardine del sionismo siano profondamente ostili anche solo all’idea di uno Stato palestinese, e questo rende impensabile per molti israeliani abbracciare la soluzione dei due Stati.

In breve, è difficile immaginare un governo israeliano con la volontà politica, ed ancora meno l’abilità, di smantellare una vasta porzione degli insediamenti ebraici, creando uno Stato palestinese in tutti i Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est.

Molti sostenitori della soluzione dei due Stati riconoscono il problema, ma pensano vi sia un modo per risolverlo: l’amministrazione Obama potrebbe esercitare forti pressioni su Israele per permettere ai Palestinesi di avere il loro Stato. Dopo tutto, gli Stati Uniti sono il più potente paese al mondo e, fornendo così tanto sostegno diplomatico e materiale ad Israele, dovrebbero avere qualche capacità di ricatto sullo Stato ebraico. Inoltre, il Presidente Obama ed i suoi principali collaboratori di politica estera sono fortemente interessati all’opzione di uno Stato palestinese che viva fianco a fianco con Israele.

Ma tutto questo non accadrà, perché nessun presidente americano può metter così tanta pressione su Israele da fargli cambiare le sue politiche verso i Palestinesi. La ragione principale è la lobby israeliana, un gruppo d’interesse molto potente che influisce in modo decisivo sulle politiche mediorientali americane. Alan Dershowitz aveva ragione quando affermava che “la mia generazione di Ebrei … è diventata parte di quello che è forse il più efficace sforzo di lobbying e di raccolta di fondi della storia della democrazia”. Quella lobby, di certo, rende impossibile per qualsiasi presidente forzare la mano con Israele, specialmente sulla questione degli insediamenti.

Prestiamo attenzione alla storia. Ogni presidente americano dal 1967 si è opposto alla costruzione degli insediamenti nei Territori Occupati. Ancora nessun presidente è stato capace di porre significative pressioni su Israele affinché la costruzione si fermasse, ed ancor meno affinché gli insediamenti venissero smantellati. Forse la prova migliore dell’impotenza americana è ciò che successe negli anni ’90 durante il processo di pace di Oslo. Tra il 1993 ed il 2000 Israele confiscò 40 mila acri di terra palestinese, costruì 250 miglia tra connettori e circonvallazioni, raddoppiò il numero dei coloni e costruì 30 nuovi insediamenti. Il Presidente Clinton riuscì a fatica a fare qualcosa per arrestare questa espansione. Anzi, gli Stati Uniti contiunarono a fornire ad Israele miliardi di dollari in aiuti esteri ogni anno ed a proteggerlo diplomaticamente in ogni occasione.

Si potrebbe pensare che Obama sia diverso dai suoi predecessori, ma ci sono poche prove a sostegno di tale tesi. Basta considerare che durante la campagna presidenziale del 2008, Obama rispose alle accuse di essere “soft” nei confronti d’Israele facendo il ruffiano nei confronti della lobby e compiacendosi ripetutamente della relazione speciale tra i due paesi.

Dopo aver assunto la carica nel Gennaio 2009, il Presidente Obama ed i suoi principali consiglieri di politica estera iniziarono a chiedere ad Israele di fermare gli insediamenti nei Territori Occupati, includendo Gerusalemme Est, in modo tale da iniziare seri negoziati con i Palestinesi. Dopo aver invocato “due Stati per due popoli” nel suo discorso del Cairo nel 2009, il Presidente Obama dichiarò, “è tempo che questi insediamenti si arrestino”. Il Segretario di Stato Hillary Clinton si era inserito nella stessa linea quando un mese prima aveva affermato, “vogliamo vedere lo stop alla costruzione di nuovi insediamenti e ad ogni altro tipo di attività ad essi collegata. Questo è ciò che il Presidente vuole”. George Mitchell, l’inviato speciale per il Medio Oriente, portò varie volte questo chiaro messaggio al Primo Ministro israeliano Netanyahu ed ai suoi luogotenenti.

In tutta risposta Netanyahu chiarì che Israele avrebbe continuato a costruire insediamenti e che lui, così come quasi tutti nella sua coalizione, si sarebbe opposto alla soluzione dei due Stati. Nel suo discorso all’Università Bar Ilan nel Giugno 2009 Netanyahu fece solo un unico riferimento all’opzione dei due Stati, e le condizioni che accostò a tale riferimento facevano presupporre che ciò di cui parlava per i Palestinesi era un pugno di scollegati Bantustan stile-apartheid, non uno Stato sovrano. Chiaramente Netanyahu vinse questa lotta. Il Primo Ministro israeliano non solo si rifiutò di fermare la costruzione delle 2550 unità abitative che stavano per essere erette in Cisgiordania, ma per chiarire ad Obama chi comandasse, alla fine del Giugno 2009 autorizzò la costruzione di 300 nuove abitazioni nella West Bank. Netanyahu rifiutò anche di approvare qualsiasi limite sulla costruzione degli insediamenti a Gerusalemme Est, la probabile capitale di un eventuale Stato palestinese. Alla fine di Settembre 2009, Obama ammise pubblicamente che Netanyahu l’aveva sconfitto sulla lotta per gli insediamenti. Falsamente il presidente negò che il congelamento della costruzione degli insediamenti fosse mai stata una precondizione per riprendere il processo di pace, ed invece docilmente iniziò a supplicare un po’ di contegno da parte d’Israele, mentre continuava la colonizzazione della Cisgiordania. Ben consapevole del proprio trionfo, il 23 Settembre Netanyahu disse, “sono contento che il Presidente Obama abbia accettato il mio approccio, secondo il quale non dovrebbero esserci precondizioni”.

In effetti la sua vittoria fu così completa che i media israeliani si riempirono di storie che descrivevano come il loro Primo Ministro avesse avuto la meglio su Obama, migliorando nettamente anche la propria traballante posizione politica interna. Per esempio, Gideon Samet scrisse sul Ma’ariv: “nelle passate settimane, è divenuto chiaro con quale facilità un Primo Ministro israeliano possa riuscire ad ostacolare un’iniziativa americana”.

Forse, il miglior commento americano sulla vittoria di Natanyahu venne dall’autore divulgativo e blogger Andrew Sullivan, il quale scrisse che questo triste episodio avrebbe dovuto “ricordare ad Obama una regola fondamentale della politica americana: mai esercitare pressioni su Israele. La sola cosa da fare è dargli soldi, non ottenendo in cambio quasi nulla. L’unica posizione concessa è dire a parole che ci si oppone agli insediamenti in Cisgiordania, mentre nei fatti si fa di tutto affinché avanzino e si sviluppino”.

L’amministrazione Obama è stata coinvolta in un secondo round di scontri sulla questione degli insediamenti, quando il governo Netanyahu, annunciando il piano di costruire oltre 1600 unità abitative a Gerusalemme Est, creò imbarazzo al Vice Presidente Biden durante la sua visita in Israele. Se quella crisi fu importante perché rivelò chiaramente che le brutali politiche israeliane verso i Palestinesi stanno danneggiando gli interessi americani in Medio Oriente, dall’altro lato occorre ricordare come alla fine Netanyahu abbia rigettato la richiesta di Obama di cessare la costruzione di insediamenti a Gerusalemme Est. Il 21 Marzo il Presidente israeliano affermò, “finché siamo preoccupati, costruire a Gerusalemme è come costruire a Tel Aviv. La nostra politica verso Gerusalemme è come la politica dei passati 42 anni”. Un giorno dopo, all’annuale conferenza dell’AIPAC ebbe a dire: “gli Ebrei costruivano a Gerusalemme 3 mila anni fa e gli Ebrei continuano a costruire oggi. Gerusalemme non è un insediamento, è la nostra capitale”. Ed appena la scorsa settimana dichiarava che “non ci sarà alcun congelamento degli insediamenti”, anche se appare che al momento Israele non stia costruendo a Gerusalemme Est. Intanto, negli Stati Uniti l’AIPAC otteneva la firma di 333 deputati e 76 senatori in calce ad una lettera indirizzata al Segretario di Stato e concernente una dichiarazione di rinnovato ed incondizionato sostegno ad Israele, nella quale, peraltro, s’invitava l’amministrazione americana a tenere nascosti eventuali disaccordi tra le parti.

In sostanza Obama non ha lo stesso potere della lobby. Il massimo che può chiedere è la ripartenza del cosiddetto “processo di pace”, ma in molti capiscono che questi negoziati sono una farsa. I due lati danno luogo ad incontri senza fine, mentre Israele continua a colonizzare le terre palestinesi. Henry Siegman ha colto il punto, quando ha chiamato tali infruttuosi negoziati “il grande inganno del processo di pace mediorientale”.

Ci sono altre due ragioni per le quali non si arriverà alla soluzione dei due Stati. I Palestinesi sono estremamente divisi al loro interno e non appaiono in una buona posizione per arrivare ad un accordo con Israele e poi rispettarlo. Questo problema è comunque affrontabile con il tempo e con l’aiuto d’Israele e degli Stati Uniti. Ma ormai il tempo è scaduto e né Gerusalemme, né Washington sembrano intenzionate a fornire tale sostegno. Poi vi sono i cristiani sionisti, che costituiscono una potente forza politica, soprattutto nel Congresso. Essi si oppongono vigorosamente alla soluzione dei due Stati, perché vogliono che Israele controlli ogni millimetro quadrato della Palestina, una situazione che credono prefiguri la Seconda Venuta di Cristo.

Ciò che tutto questo significa è che ci sarà un Grande Israele tra il Giordano ed il Mediterraneo. Anzi, io direi che esso già esiste. Ma chi vi vivrà e che tipo di sistema politico vi sarà?

Non sarà uno Stato democratico bi-nazionale, almeno nel prossimo futuro. Una netta maggioranza d’Ebrei israeliani non avrebbe il minimo interesse a vivere in uno Stato dominato dai Palestinesi. E questo includerebbe i giovani ebrei israeliani, molti dei quali sono portatori di sentimenti razzisti verso i Palestinesi che vivono in mezzo a loro. Inoltre, pochi sostenitori americani d’Israele sono favorevoli a quest’esito, almeno oggi come oggi. Al contrario, molti Palestinesi accetterebbero certamente senza esitazione uno Stato democratico bi-nazionale, se esso potesse essere raggiunto velocemente. Ma questo non succederà, anche se, come mostrerò tra poco, è probabile che questa opzione venga incrociata.

Vi sarebbe anche l’aspetto della pulizia etnica, il che comporterebbe sicuramente che nel Grande Israele si formi una maggioranza ebraica. Ma questa strategia omicida appare improbabile, poiché provocherebbe enormi danni morali per Israele, per le sue relazioni con gli Ebrei della Diaspora e per la sua posizione internazionale. Israele ed i suoi sostenitori sarebbero giudicati duramente dalla storia, e ciò avvelenerebbe le relazioni con i vicini d’Israele negli anni a venire. Nessun vero amico d’Israele potrebbe appoggiare tale politica, la quale si configurerebbe chiaramente come un crimine contro l’umanità. Questa strategia appare improbabile anche perché i 5 milioni e mezzo di Palestinesi che vivono tra il Giordano ed il Mediterraneo si opporrebbero con tutte le loro forze ad un’espulsione israeliana dalla loro case.

Nondimeno vi sono ragioni per temere che Israele adotti tale soluzione, dal momento che la bilancia demografica pende sempre di più a loro sfavore ed essi temono per la sopravvivenza dello Stato ebraico. In particolari circostanze, cioè una guerra che coinvolgesse Israele e che fosse accompagnata da rilevanti fermenti palestinesi, i leader israeliani potrebbero arrivare a decidere espulsioni massicce di Palestinesi dal Grande Israele, contando poi sulla lobby per la protezione dalle critiche della comunità internazionale e, soprattutto, dalle sanzioni.

Non dobbiamo dunque sottostimare la volontà d’Israele di attuare una così terrificante strategia, nel caso l’opportunità si presentasse. È evidente dai sondaggi e dal dibattito quotidiano che molti Israeliani hanno opinioni razziste sui Palestinesi, ed il massacro di Gaza dimostra che essi non si farebbero molti scrupoli nell’uccidere civili palestinesi. È difficile non essere d’accordo con il commento che Jimmy Carter fece all’inizio dell’anno, quando affermò che “i cittadini della Palestina sono trattati più similmente ad animali che ad esseri umani”. Un secolo di conflitto e quattro decenni di occupazione comportano questo per una popolazione.

Inoltre un significativo numero di Ebrei israeliani, circa il 40% o più, crede che i cittadini arabi d’Israele debbano essere “incoraggiati” dal governo a lasciare il paese. Anche l’ex Ministro degli Esteri Tzipi Livni aveva affermato che se si arrivasse alla soluzione dei due Stati, i cittadini palestinesi d’Israele dovrebbero spostarsi nel nuovo Stato palestinese. E poi vi è un recente ordine militare elaborato dalle Forze Armate Israeliane e volto a “prevenire infiltrazioni” in Cisgiordania. Di fatto, esso permetterebbe ad Israele di deportare decine di migliaia di Palestinesi dalla West Bank. E, ovviamente, gli Israeliani hanno dato luogo a massicce pulizie etniche palestinesi nel 1948 e nel 1967. Dunque, io non credo che Israele possa cessare quest’odioso modo di comportarsi.

Il più probabile esito, in assenza di una “soluzione dei due Stati” è che un Grande Israele diventi un vero e proprio Stato d’apartheid. Come chiunque si sia recato nei Territori Occupati sa bene, vi è già una iniziale situazione di apartheid, con leggi separate, strade separate, edifici separati per gli Israeliani ed i Palestinesi, i quali sono confinati in impoverite enclavi da dove possono uscire o nelle quali possono entrare solo con grande difficoltà.

Gli Israeliani, ed ugualmente i loro sostenitori americani, si rizzano qualora venga accennato un paragone con il regime bianco in Sudafrica, eppure questo sarebbe il risultato se essi creassero un Grande Israele, negando pieni diritti politici ad una popolazione araba che presto supererà in numero gli Ebrei in tutta la Terra Santa. Proprio due primi ministri israeliani hanno sottolineato questo punto. Ehud Olmert, il predecessore di Netanyahu, alla fine del Novembre 2007 disse che se “la soluzione dei due Stati collassa”, Israele “fronteggerà un conflitto in stile sudafricano”. Egli andò anche oltre, affermando che “quando ciò accadrà, sarà la fine dello Stato d’Israele”. L’ex Primo Ministro Ehud Barak, ora Ministro della Difesa, all’inizio dello scorso Febbraio disse che “fino a che nel territorio ad ovest del fiume Giordano ci sarà una sola entità politica chiamata Israele, essa non potrà che essere non-ebraica e non-democratica. Se questo blocco di milioni di Palestinesi non potrà votare, allora vi sarà una situazione di apartheid”.

Altri Israeliani, così come Jimmy Carter e l’arcivescovo Desmond Tutu, hanno ammonito che qualora Israele non si ritirasse dai Territori Occupati, si arriverebbe ad uno Stato simile al Sudafrica dell’apartheid. Tuttavia, se ho ragione, l’occupazione non si fermerà e non si arriverà alla soluzione dei due Stati. Ciò significa che Israele completerà nel prossimo decennio la propria trasformazione in paese d’apartheid.

Nel lungo periodo, comunque, Israele non sarà in grado di mantenere questa situazione discriminatoria. Come accadde al Sudafrica razzista, il paese si trasformerà in uno Stato democratico bi-nazionale, la cui politica sarà dominata dai più numerosi Palestinesi. Ovviamente questo significa che Israele come “Stato ebraico” si trova dinanzi ad un desolante futuro. Lasciatemi spiegare il perché.

In primo luogo, la discriminazione e la repressione che sono l’essenza dell’apartheid saranno sempre più evidenti all’opinione pubblica mondiale. Israele ed i suoi sostenitori sono stati bravi nell’evitare che i principali media americani dicessero la verità su cosa Israele sta compiendo nei Territori Occupati. Ma Internet cambia le carte in tavola. Non solo permette agli oppositori dell’apartheid di raccontare al mondo come stanno realmente le cose, ma permette anche agli Americani di conoscere ciò che il New York Times ed il Washington Post ha voluto nascondere loro. Alla lunga, ciò può anche portare queste due istituzioni dell’informazione a seguire con maggiore accuratezza i fatti mediorientali.

La crescente visibilità della questione non è solo merito di Internet. È anche dovuta al fatto che la triste condizione dei Palestinesi colpisce ed impressiona tutte le popolazioni del mondo arabo e musulmano, ed esse sollevano spesso il problema davanti agli occidentali. La questione ha poi grande eco nell’influente comunità dei diritti umani, la quale è stata ovviamente molto critica nei confronti del duro trattamento riservato ai Palestinesi da parte d’Israele. Non sorprende, dunque, che i più intransigenti Israeliani ed i loro sostenitori americani abbiano intrapreso una campagna di diffamazione contro quelle organizzazioni per i diritti umani che criticano Israele.

Comunque, il principale problema che i sostenitori d’Israele dovrebbero affrontare sarebbe l’impossibilità di difendere l’apartheid, un concetto antitetico al cuore fondamentale dei valori occidentali. Come si potrebbe giustificare l’apartheid dal punto di vista morale, soprattutto negli Stati Uniti dove la democrazia è venerata e dove la segregazione ed il razzismo sono costantemente condannati? È difficile immaginare che gli Stati Uniti possano intrattenere una “relazione speciale” con uno Stato d’apartheid. Difficile anche immaginare che gli Stati Uniti possano provare simpatia per tale paese. Più facile pensare che l’America si opponga fermamente a tale regime e tenti addirittura di cambiarlo. Certamente altri Stati si aggregherebbero a Washington. Ecco sicuramente perché il Primo Ministro Olmert ebbe a dire che procedendo lungo la strada dell’apartheid si sarebbe giunti al suicidio d’Israele.

L’apartheid non sarebbe solo moralmente riprovevole, bensì costituirebbe un ostacolo strategico costante per gli Stati Uniti. I recenti commenti del Presidente Obama, del Vice Presidente Biden e del Generale Petraeus chiarificano come la colonizzazione israeliana dei Territori Occupati stia procurando grossi danni agli interessi americani in Medio Oriente e nelle aree circostanti. Come Biden confidò al Primo Ministro Benjamin Netanyahu in Marzo, “Tutto questo sta iniziando a diventare pericoloso per noi. Ciò che state facendo minaccia la sicurezza delle nostre truppe che stanno combattendo in Iraq, Afghanistan e Pakistan. È pericoloso per noi, così come per la pace regionale”. Questa situazione potrà solo peggiorare se Israele diventerà un vero e proprio Stato d’apartheid. Inoltre, mentre questo sta diventando evidente a sempre più Americani, il sostegno strategico alla causa israeliana si erode ogni giorno di più.

Gli Israeliani più intransigenti ed i loro sostenitori sono consapevoli di questi problemi, ma sono fiduciosi che la lobby difenderà Israele ad ogni costo e che tale sostegno sarà sufficiente all’apartheid per sopravvivere. Potrebbe sembrare una scommessa sicura, dal momento che sino ad ora la lobby ha giocato un ruolo chiave nel proteggere Israele dalla pressione americana. Infatti si potrebbe sostenere che, senza l’aiuto di organizzazioni quali l’AIPAC o la Lega Anti-Diffamazione, Israele non avrebbe potuto intraprendere in modo così deciso la strada dell’apartheid. Ma questo tipo di strategia non pagherà nel lungo periodo.

Il problema di dipendere dalla lobby per ricevere protezione consiste nel fatto che molti Ebrei americani non sosterrebbero Israele qualora questo si trasformasse in un vero Stato d’apartheid. Infatti molti di essi criticherebbero Israele ed invocherebbero la trasformazione del Grande Israele in una democrazia legittima. Ovviamente ora non si è arrivati a questo punto, ma vi sono buone ragioni per pensare che uno spostamento dell’opinione della comunità ebraica americana in questa direzione sia dietro l’angolo. Nondimeno si può negare che vi saranno certamente ossi duri che difenderanno l’apartheid; tuttavia la loro influenza sarà minima e sarà sempre più chiaro come la loro posizione strida con il cuore dei valori americani.

Lasciatemi spiegare.

Gli Ebrei americani ai quali importa veramente d’Israele possono essere divisi in tre ampie categorie. Le prime due sono quelle che chiamo rispettivamente dei “retti Ebrei” e dei “nuovi Boeri”, gruppi chiaramente definibili, che si preoccupano in modi diametralmente opposti d’Israele e di come esso sia comandato. Il terzo e più ampio gruppo è costituito da persone alle quali interessa molto il destino d’Israele, ma che non possiedono una chiara visione circa il Grande Israele e l’apartheid. Lasciateci chiamare questo gruppo “il grande centro ambivalente”.

I retti Ebrei sono profondamente attaccati ai fondamentali valori liberali. Essi danno massima importanza ai diritti individuali, che ritengono universali, quindi applicabili sia agli Ebrei che ai Palestinesi. Comprendono inoltre che questi ultimi pagarono un prezzo enorme per rendere possibile la creazione dello Stato d’Israele nel 1948. Riconoscono poi il dolore e la sofferenza che Israele ha inflitto ai Palestinesi nei Territori Occupati dal 1967. Infine, molti retti Ebrei credono che i Palestinesi meritino un vero e proprio Stato, proprio come gli Ebrei. In pratica, essi ritengono che il principio di auto-determinazione si applichi ai Palestinesi, così come agli Ebrei, e che la soluzione dei due Stati sia certamente la migliore per raggiungere tale scopo. Tuttavia, alcuni all’interno di questo gruppo preferirebbero un unico Stato democratico bi-nazionale, piuttosto che due Stati separati.

Per spiegare meglio cosa intendendo quando uso il termine “retti Ebrei”, lasciate che vi indichi alcuni nomi di persone ed organizzazioni che inserirei in questa categoria. Questa lista includerebbe Noam Chomsky, Roger Cohen, Richard Falk, Norman Finkelstein, Tony Judt, Tony Karon, Naomi Klein, MJ Rosenberg, Sara Roy e Philip Weiss del noto sito Mondoweiss, tanto per citarne qualcuno. Inoltre includerei molti soci di J Street e tutti quelli di Jewish Voice of Peace, oltre a prominenti figure in campo internazionale, come il giudice Richard Gladstone. Infine applicherei questa etichetta a molti Ebrei americani che lavorano in diverse organizzazioni per i diritti umani, come Kenneth Roth di Human Rights Watch.

Dall’altra parte abbiamo i nuovi Boeri, i quali sosterrebbero Israele anche nel caso di una situazione d’apartheid. Questi soggetti starebbero con Israele in ogni caso, poiché sono soggetti ad una cieca fedeltà nei confronti dello Stato ebraico. Questo non significa che per i nuovi Boeri il sistema di apartheid sia attraente ed anche desiderabile, poiché sono sicuro che molti di essi non lo gradirebbero. Certamente alcuni nuovi Boeri sono favorevoli a due Stati, ed altri condividono i valori liberali. Il punto chiave, comunque, è che questo gruppo appare profondamente orientato ad un sostegno verso Israele senza riserve. Ovviamente essi cercherebbero di convincere loro stessi e gli altri del fatto che Israele non sia uno Stato d’apartheid e che coloro che affermano ciò siano antisemiti. Abbiamo familiarità con questa strategia.

Classificherei molti soggetti che guidano le maggiori organizzazioni della lobby israeliana come appartenenti a questa categoria. La lista includerebbe Abraham Foxman della Lega Anti-Diffamazione, David Harris della Commissione Ebraica Americana, Malcolm Hoenlein della Conferenza dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebraico-Americane, Ronald Lauder del Congresso Mondiale Ebraico e Morton Klein dell’Organizzazione Sionista d’America, solo per citare i personaggi più importanti. Includerei anche uomini d’affari come Sheldon Adelson, Lester Crown e Mortimer Zuckerman, così come personalità del mondo dei media, ad esempio Fred Hiatt e Charles Krauthammer del Washington Post, Bret Stephens del Wall Street Journa e Martin Peretz del New Republic. Sarebbe peraltro facile aggiungere altri nomi alla lista.

La chiave per determinare se la lobby riuscirà a proteggere un apartheid israeliano nel lungo periodo sta nell’atteggiamento del “grande centro ambivalente”, cioè se esso si schiererà con i retti Ebrei o con i nuovi Boeri. Questi ultimi, per assicurare la sopravvivenza d’Israele come Stato razzista, dovranno vincere il confronto in modo netto.

Non vi sono dubbi che il presente equilibrio di potere favorisca i nuovi Boeri. Quando sulle questioni legate ad Israele il gioco si fa duro, i più intransigenti ottengono dalla loro parte la maggioranza di quegli Ebrei americani ai quali importa grandemente della sorte d’Israele. I retti Ebrei, dal canto loro, hanno sicuramente meno influenza sugli ambivalenti, almeno oggi come oggi. Questa situazione è dovuta al fatto che la maggioranza degli Ebrei americani, specialmente i più vecchi nelle comunità, ha poca consapevolezza di quanto in là si sia spinto Israele sulla strada dell’apartheid e di quale sia la meta finale. Essi pensano che la soluzione dei due Stati sia ancora praticabile e che Israele sia ancora impegnato nel concedere ai Palestinesi un loro Stato. Le loro false credenze fanno sì che essi pensino che non vi sia un reale pericolo derivante da un Israele simile al Sudafrica dell’apartheid, e questo facilita il loro schierarsi a fianco dei nuovi Boeri.

Questa situazione, comunque, è insostenibile nel tempo. Una volta ampiamente riconosciuto che la soluzione dei due Stati è morta e che il Grande Israele è una realtà, i retti Ebrei avranno due possibilità: sostenere l’apartheid o lavorare per aiutare a creare uno Stato democratico bi-nazionale. Credo che la maggior parte di essi opterebbe per la seconda opzione, in larga misura per il forte legame con i valori liberali, i quali renderebbero qualsiasi Stato d’apartheid un abominio. Certamente i nuovi Boeri difenderanno fieramente l’Israele segregazionista, poiché la loro fedeltà ad Israele è così incondizionata che sovrasta qualsiasi affezione ai valori liberali.

Comunque, la domanda centrale è: cosa succederà a quegli Ebrei che costituiscono il gruppo degli ambivalenti, una volta che sarà loro chiaro che Israele è pienamente uno Stato d’apartheid e che l’evolvere degli eventi ha reso di fatto impraticabile la soluzione dei due Stati? Si alleeranno con i nuovi Boeri nella difesa dell’apartheid, oppure con i retti Ebrei nella trasformazione del Grande Israele in una vera democrazia? Oppure essi si siederanno silenziosamente a lato dello scontro?

Credo che la maggior parte degli Ebrei nel grande centro ambivalente non difenderà l’apartheid, bensì alternativamente starà silenziosa oppure si allineerà ai retti Ebrei contro i nuovi Boeri, i quali saranno sempre più marginalizzati nel corso del tempo. Ed una volta che ciò accadrà, la lobby non sarà più capace di nascondere come in passato le politiche razziste israeliane nei confronti dei Palestinesi.

Vi sono diverse ragioni per le quali è improbabile che, col procedere di una situazione d’apartheid in stile sudafricano, vi sia molto sostegno in favore d’Israele presso la comunità ebraica americana. Anzitutto l’apartheid è uno spregevole sistema politico, fondamentalmente in contrasto con i valori fondamentali della tradizione americana, così come della tradizione ebraica. Ecco perché i nuovi Boeri difenderanno Israele su di un terreno che non sarà quello dello Stato d’apartheid, bensì giustificheranno l’oppressione e la discriminazione nei confronti dei Palestinesi con ragioni di sicurezza. Ma, ancora una volta, arriveremo rapidamente al punto che sarà difficile non notare come il Grande Israele sia diventato un vero e proprio Stato d’apartheid e come chi affermi il contrario sia un illuso od un ingenuo. In breve, non molti Ebrei americani si faranno ingannare dalle argomentazioni dei nuovi Boeri.

Inoltre, i sondaggi mostrano come gli Ebrei americani più giovani provino meno attaccamento per Israele rispetto ai più anziani. Certamente questo è dovuto al fatto che le nuove generazioni sono nate dopo l’Olocausto e dopo l’eliminazione (in larga misura) dell’antisemitismo dalla vita americana. In aggiunta, gli Ebrei sono stati pienamente integrati nella cultura dominante americana, fino al punto che molti leader delle comunità ebraiche ritengono che i sempre più frequenti matrimoni con non-Ebrei possano portare col tempo alla scomparsa dell’ebraismo americano. Non sorprende che gli Ebrei più giovani siano meno disposti a vedere Israele come un paradiso sicuro, poiché ciò è legato alle ondate antisemite dei goiym, le quali appaiono piuttosto improbabili qui negli Stati Uniti. Questa prospettiva rende i giovani meno inclini degli anziani nel difendere Israele senza se e senza ma.

Vi è un’altra ragione per la quale gli Ebrei americani si sentiranno probabilmente meno legati ad Israele negli anni futuri. Cambiamenti demografici importanti stanno modificando la fisionomia d’Israele, e questo renderà difficile, per molti di essi, continuare ad identificarsi con lo Stato ebraico. Quando Israele venne creato nel 1948 pochi ultra-ortodossi vivano laggiù. Infatti gli ultra-ortodossi sono profondamente ostili al sionismo, che vedono come un affronto al giudaismo. Il secolarismo ebraico ha dominato la vita dello Stato d’Israele sin dalla sua fondazione, ma ora la sua influenza sta svanendo e nei prossimi decenni sarà destinata a declinare ulteriormente. La ragione principale è che gli ultra-ortodossi stanno diventando una significativa percentuale della popolazione, visti i loro tassi di natalità incredibilmente alti. Si stima che, in media, una donna ultra-ortodossa abbia 7.8 figli. Come molti di voi sapranno le aree ebraiche di Gerusalemme sono ormai dominate dagli ultra-ortodossi. Infatti, nelle elezioni comunali della Città Santa del 2008, un candidato ultra-ortodosso si vantava, “entro 15 anni non vi sarà più un sindaco proveniente dal secolarismo ebraico in nessuna città d’Israele”. Ovviamente, egli stava esagerando, ma il suo vanto era indicativo del crescente peso degli ultra-ortodossi in Israele. Un ultimo dato da considerare: quest’anno, circa la metà degli scolari elementari è composta da ragazzini Palestinesi od ultra-ortodossi. Dati gli alti tassi di natalità di queste due categorie, la loro percentuale di studenti elementari, e dunque la loro percentuale nella popolazione nel suo complesso, è destinata ad aumentare esponenzialmente col tempo.

I diversi tassi di nascita presso le diverse comunità d’Israele non rappresentano la sola causa del cambiamento in atto nella società israeliana. Vi è anche un’altra dinamica attiva: molti Israeliani hanno lasciato il paese per vivere all’estero, e la maggior parte di essi non ha intenzione di ritornare. Alcune recenti stime suggeriscono che tra i 750 mila ed il milione di Israeliani risieda in altri paesi e buona parte di essi sia di tradizione secolare. In aggiunta, un altro sondaggio indicherebbe che molti Israeliani vorrebbero vivere in un altro paese. Questa situazione è destinata a peggiorare perché molti Ebrei di tradizione secolare non vorranno vivere in uno Stato d’apartheid nel quale le politiche e la vita di tutti i giorni saranno sempre più nelle mani degli ultra-ortodossi.

Tutto ciò per dire che l’identità secolare ebraica d’Israele, che fin dall’inizio è stata molto influente, si sta lentamente erodendo e sembrerebbe destinata a continuare tale processo man mano che gli ultra-ortodossi aumenteranno in numero ed acquisteranno influenza. Nei prossimi anni questo importante sviluppo renderà molto più difficile per gli Ebrei secolari americani, i quali costituiscono il perno della comunità ebraica statunitense, identificarsi strettamente con Israele ed essere desiderosi di difendere lo Stato ebraico anche una volta che esso si sarà pienamente trasformato in uno Stato d’apartheid. Ovviamente la difficoltà sarà aumentata dal fatto che gli Ebrei americani sono tra i più determinati difensori dei valori liberali.

Il punto di fondo è che Israele non sarà capace di sopravvivere nel lungo periodo come Stato d’apartheid, poiché non potrà più dipendere dalla comunità ebraica americana per difendere le proprie disgustose politiche verso i Palestinesi. E senza questa protezione Israele è spacciato, poiché l’opinione pubblica occidentale gli si rivolterà contro appena esso diventerà un vero e proprio Stato d’apartheid.

Perciò io credo che alla fine Israele diventerà uno Stato democratico bi-nazionale, e che i Palestinesi alla fine domineranno la sua politica, poiché nella terra tra il Giordano ed il Mediterraneo saranno nettamente superiori dal punto di vista demografico.

Ciò che vale la pena osservare circa questa situazione è che in verità la lobby israeliana sta aiutando Israele a commettere un suicidio nazionale. Dopotutto, Israele si sta trasformando in uno Stato d’apartheid che, come ha fatto notare Ehud Olmert, non è sostenibile nell’era moderna. Ancora più sconvolgente il fatto che vi sia una soluzione alternativa, abbastanza facile da raggiungere e che sarebbe nel migliore interesse d’Israele stesso: la soluzione dei due Stati. È difficile capire perché Israele ed i suoi sostenitori americani non lavorino nottetempo per creare un effettivo Stato palestinese nei Territori Occupati e perché invece si dedichino con tutte le loro energie alla costruzione del Grande Israele, il quale sarebbe uno Stato d’apartheid. Non ha senso né dal punto di vista morale, né dal punto di vista strategico. Anzi, è una politica eccezionalmente stupida.

E per quanto riguarda i Palestinesi? Credo che la soluzione dei due Stati sia il miglior esito possibile anche per loro. Comunque essi hanno poco da dire sul tema, poiché sono attualmente alla mercé degli Israeliani che dominano quei territori. Questo significa che i Palestinesi finiranno col vivere nel Grande Israele, il quale sarà uno Stato d’apartheid. Certo, uno potrebbe pensare che si sia già arrivati a quel punto. Ugualmente i Palestinesi avranno un interesse vitale nel passaggio dall’apartheid alla democrazia il più velocemente possibile.

Lasciatemi concludere con alcuni consigli che vorrei dare ai Palestinesi, affinché contribuiscano a trasformare il Grande Israele in una democrazia bi-nazionale.

Per prima cosa è necessario riconoscere che i Palestinesi e gli Israeliani sono occupati in una guerra di idee. Per essere più precisi è una guerra tra due visioni alternative ed incompatibili del Medio Oriente: un Grande Israele che è uno Stato d’apartheid, oppure un’Israele che è una democrazia. Non vi sono dubbi che la posizione palestinese abbia maggiori possibilità di successo, visto che ai giorni nostri è impossibile far passare l’idea dell’apartheid.

In secondo luogo, per vincere questa guerra i Palestinesi dovranno adottare la strategia del Sudafrica, cioè dovranno ottenere dalla loro parte l’opinione pubblica mondiale, usandola per fare pressioni su Israele affinché abbandoni l’apartheid ed adotti la democrazia. Questa fase non sarà semplice perché i nuovi Boeri raddoppieranno i loro sforzi per difendere le atroci politiche d’Israele. Fortunatamente, la loro abilità nel fare questo è destinata a diminuire col tempo.

Terzo, in questa guerra di idee la più formidabile arma nelle mani dei Palestinesi sarà Internet, che renderà più facile testimoniare ciò che Israele sta compiendo e diffondere il messaggio a livello mondiale.

Quarto, i Palestinesi dovranno istituire una stabile classe di portavoce che potranno connetterli con le popolazioni occidentali e portare in cima all’agenda del dibattito pubblico il tema dell’apartheid israeliano. In altre parole, essi necessiterebbero di numerosi Mustafa Barghouitis. I Palestinesi avranno anche bisogno di alleati, e non solo provenienti dai paesi arabi o dal mondo musulmano, ma anche dai paesi occidentali. Molti alleati potrebbero essere retti Ebrei, che giocherebbero un ruolo chiave nella lotta contro l’apartheid israeliano, così come fecero alcuni bianchi in Sudafrica.

Quinto, è essenziale che i Palestinesi affermino a chiare lettere che non intendono cercare vendette contro gli Ebrei israeliani per i loro crimini passati, ma che piuttosto desiderano impegnarsi per creare uno Stato bi-nazionale democratico dove Ebrei e Palestinesi possano vivere insieme pacificamente. I Palestinesi non devono comportarsi con gli Ebrei come questi si sono comportati con loro.

Infine, i Palestinesi dovrebbero definitivamente rifiutare la violenza per combattere l’apartheid. Dovrebbero resistere fermamente, ma privilegiare una strategia di non-violenza. Il modello da seguire è Gandhi, non Mao. La violenza è controproducente, perché, nel caso diventi abbastanza intensa, gli Israeliani potrebbero pensare di poter espellere i Palestinesi dalla Cisgiordania e da Gaza. I Palestinesi non devono mai sottovalutare il pericolo di un’espulsione di massa. Inoltre, una nuova Intifada minerebbe il sostegno alla causa palestinese nel mondo occidentale, sostegno che è essenziale nella guerra delle idee, il terreno sul quale si determinerà il futuro della Palestina.

Riassumendo, vi sono in vista grandi pericoli per i Palestinesi, che continueranno a soffrire terribilmente per mano degli Israeliani nei prossimi anni. Tuttavia sembrerebbe che alla fine i Palestinesi otterranno il loro Stato, principalmente perché Israele appare incamminato verso l’autodistruzione. Grazie.

(Traduzione di Francesco Rossi)

* John J. Mearsheimer è docente di Scienze politiche e co-direttore del Programma sulla Politica di Sicurezza Internazionale alla Chicago University

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