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Desaparecidos in Colombia: numeri da genocidio

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La Colombia è sempre stato un Paese turbolento (vi si combatte ancora il conflitto armato più lungo del continente fra le guerriglie di stampo marxista da una parte e Stato e gruppi paramilitari dall’altra) e le sparizioni di persone compromesse con l’opposizione politica e sociale non sono un fatto nuovo, quello che è nuovo è semmai la magnitudine del fenomeno; numeri che sminuiscono addirittura quelli della dittatura cilena e delle varie giunte militari argentine messe assieme.

Questa triste pratica cominciò a essere conosciuta negli anni ’70, se pensiamo che durante il governo di Turbay Ayala (1978-1982) si denunciarono alle autorità 273 casi di sparizioni in quattro anni, ma i numeri andarono progressivamente salendo; difatti tra il ’78 e il 1986 abbiamo circa 1000 scomparsi, 1560 nel 1987, mentre tra 1988 e il 2003 si supera la cifra di 27 mila scomparsi, niente comunque in confronto ai 38.255 “desaparecidos” denunciati da Medicina Legal solo negli ultimi 3 anni (2007-2009).

Nonostante queste cifre spaventose (la senatrice Piedad Cordoba parla di una cifra complessiva di 250.000 vittime), lo Stato colombiano ci ha messo molto per riconoscere il fenomeno come vera e propria emergenza nazionale a cui porre rimedio con misure adeguate.

La Legge per contrastare le sparizioni forzose è del 2000 e nonostante il gruppo paramilitare delle AUC (Autodifese Unite Colombiane) abbia ufficialmente consegnato le armi nel 2004 per godere dei benefici previsti dalla Ley Paz y Justicia (carceri speciali, pene clementi, accesso a internet) confessando i crimini perpetrati, il giornale La Semana ha pubblicato un documento tramite cui, con delle intercettazioni telefoniche dal carcere, si è venuti a sapere che i capi paramilitari davano ancora ordini ai propri uomini fuori dal carcere circa esecuzioni da compiere, traffico di narcotici e riarmo dei gruppi ufficialmente smobilitati.

Nel processo uno dei comandanti delle AUC, Hernàn Giraldo Serna, dichiarò che lui non era il mandante di tutte le morti per le quali era accusato, visto che il gruppo aveva l’ordine di far scomparire <<tutto quello che odorava a guerriglia>>, ovvero qualsiasi movimento sociale organizzato.

Il target delle vittime è quello di gente procedente da ambienti popolari, colombiani attivi nelle cooperative, nelle giunte di azione comunale, nei movimenti studenteschi, nelle organizzazioni sociali o per la difesa dei diritti umani, simpatizzanti o militanti di partiti e organizzazioni di sinistra che vivono in regioni ad alto conflitto e ricche di risorse naturali e semplici contadini che difendono la propria terra.

Secondo il sottodirettore della Commissione Colombiana dei Giuristi, Carlos Rodrìguez Mejìa, “la sparizione violenta in Colombia è diventata uno strumento di lotta politica contro settori popolari e contestatari, a differenza dell’Argentina dove le vittime erano per lo più professionisti e studenti della classe alta e media”.

Responsabilità dello Stato

Le responsabilità dello Stato colombiano di fronte al fenomeno sono evidenti, sia dal punto di vista “passivo” che dal punto di vista “attivo”, come dimostrano i contatti di uomini delle alte sfere governative con i vertici paramilitari e come dimostra lo scandalo dei cosiddetti “falsi positivi”, ovvero oltre duemila civili uccisi in esecuzioni sommarie da parte dell’esercito e fatti passare come guerriglieri caduti in battaglia, ritrovati in centinaia di fosse comuni sparse per il Paese.

Inoltre le dichiarazioni espresse nel processo a suo carico da Noguera, direttore del DAS (Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, servizio di intelligence colombiano), indicano nel Presidente Uribe il mandante dei pedinamenti illegali e delle intimidazioni a danno di sindacalisti, magistrati, giornalisti e membri dell’opposizione dei quali è accusato. Uribe è stato inoltre criticato di recente, in ambienti accademici, per avere nominato Fabio Valencia, fratello di un uomo detenuto per aver consegnato informazioni preziose alle AUC, come Ministro del suo Gabinetto.

Secondo il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulle Scomparse Violente o Involontarie “esiste un modello di esecuzioni al di fuori della cornice legislativa commesse da agenti dello Stato o da persone che perpetrano i delitti con la loro tolleranza, aquiescenza o appoggio”.

Zone maggiormente colpite

Le regioni maggiormente colpite dal fenomeno delle scomparse sono Arauca, Antioquia, Magdalena Medio e Cundinamarca, zone ricche di risorse naturali, flora, fauna, biodiversità e a forte presenza di multinazionali.

Secondo Miguel Cifuentes, leader campesino, l’aumento della violenza paramilitare in queste zone non corrisponde a una aumentata presenza di guerriglieri, ma è legata alla lotta per l’accaparremento delle terre da parte di potentati economici che si servono dei gruppi paramilitari per difendere i propri interessi in queste regioni ricche di oro, petrolio, biodiversità, nonchè di terre da sfruttare. I massacri, nel concreto, hanno causato la paralisi delle rivendicazioni sociali nonchè la fuga di 4,5 milioni di persone (che fanno della Colombia lo Stato con più profughi interni al mondo, dopo il Sudan), che hanno lasciato libere ed incolte circa 10 milioni di acri di terra fertile, subito accaparrate dalle multinazionali straniere e dai latifondisti locali, stretti alleati delle formazioni paramilitari.

La Commissione dei Giuristi Colombiani è d’accordo nel ritenere lo Stato responsabile (diretto o indiretto) per la maggior parte delle sparizioni: <<Tale terrorismo di Stato, oltre che funzionale per silenziare l’opposizione, ha tenuto come obbiettivo principale l’abbandono delle terre da parte del campesinato per consegnarlo con l’assenso del Governo allo sfruttamento del grande latifondo, del narcotraffico e delle multinazionali straniere, che negli ultimi anni si sono appropriati di centinaia di migliaia di ettari di terreno>>.

Situazione internazionale

La massiccia esistenza in Colombia del fenomeno delle sparizioni di dirigenti sindacali, indigeni, attivisti, semplici lavoratori è da attribuirsi principalmente a due cause fondamentali, una di natura economica e l’altra di natura schiettamente geopolítica.

La ragione económica parte dalla flessibile legislazione del mercato del lavoro colombiano che ha permesso al Paese di crescere a un ritmo costante tutti gli anni e di attirare investitori stranieri, principalmente nordamericani, nonchè di diventare lo Stato sudamericano con le maggiori diseguaglianze sociali.

Oltre agli USA, principale investitore nel Paese, anche l’Unione Europea ha degli interessi da proteggere, visto che Spagna, Olanda de altri, hanno grossi investimenti nella zona; a riprova di questo interesse, associazioni del mondo imprenditoriale colombiano, del Governo e dei movimenti sociali si sono riunite dal 15 al 17 aprile 2010 per discutere circa il Trattato di Libero Commercio tra Colombia ed UE, che dovrebbe entrare in vigore a maggio, nonostante la situazione sociale ed umanitaria in cui versa il Paese che si è già accennata.

L’alleanza fra Stato, procacciatore di investimenti, e multinazionali straniere, trova ovviamente un attore scomodo in qualsiasi oppositore sociale che si opponga al processo di privatizzazione del territorio, che viene per questo motivo dipinto sempre come pericoloso terrorista, legato ai gruppi guerriglieri storici ed al narcotraffico.

Questi interessi vengono poi protetti materialmente con la strategia del terrorismo di Stato, portato avanti principalmente dalle unità paramilitari, opportunamente controllate e infiltrate dal servizio di intelligence colombiano, come dimostra il recente processo all’ex direttore del DAS, Noguera.

Dal punto di vista geopolitico invece possiamo notare come l’area indiolatina sia divenuta sempre più indipendente dall’influenza nordamericana dopo la fine della “guerra fredda” e come la Colombia, in questo contesto di generale emancipazione, sia un mondo a parte rispetto a chi sta cercando forme di integrazione regionale, economiche e politiche, indipendenti dai vicini del nord.

La Colombia rimane dunque per gli Stati Uniti l’ultimo lembo di Sud America da tenere ancora sotto pieno controllo e perciò hanno un forte interesse a mantenere un regime amico al governo, non solo per evitare che la Colombia venga governata da un movimento nazionalista, ma anche per controllare militarmente l’area dove vi sono Paesi minacciosi per i suoi interessi come Venezuela, Bolivia, Ecuador e Brasile; inoltre, secondo quanto denunciato dalla senatrice colombiana Piedad Cordoba, formazioni paramilitari colombiane sarebbero state usate anche in Honduras per reprimere le proteste sociali dopo il golpe che ha destituito il Presidente Zelaya, facendo così anche uscire il Paese centroamericano dall’ALBA e facendolo rientrare nell’orbita di Washington.

Gli USA, dopo aver perso la base di Manta in Ecuador, hanno stipulato un accordo militare con la Colombia, ufficialmente per combattere il narcotraffico, che però prevede la costruzione di sette nuove basi americane in territorio colombiano, esenti da limiti riguardanti gli effettivi o i mezzi che vi stanziano, oltre che essere al di sopra della legge colombiana.

Come spiegava un documento ufficiale delle Forze Aeree statunitensi del maggio 2009, Washington aveva bisogno di assicurarsi la propria presenza in Colombia per poter svolgere operazione militari di “ampio spettro” in tutto il Sud America e per poter “combattere la costante minaccia dei governi anti-statunitensi presenti nella regione”.
Allo stesso tempo, il documento, spiegava che attraverso le nuove basi in Colombia, l’esercito statunitense avrebbe potuto “migliorare le capacità di eseguire un’eventuale guerra lampo”.

Ugualmente, verso la fine del 2009, è stato siglato un accordo fra Washington e Panamà per stabilire 11 basi militari operative, sempre mirate all’incremento della lotta al narcotraffico.

Gli Stati Uniti – già in possesso della base militare di Howard a Panamà, chiusa nel ‘99 – al posto di aprire un’altra base così grande all’interno della regione, e con la scusa della lotta al narcotraffico, avevano già preferito in passato optare per una stabilizzazione in più “luoghi di operazione avanzata” (FOL – Forward Operating Locations –) ovvero: El Salvador (Comalapa), Ecuador (Manta), Aruba e Curarao.

Nel 2009, tutti i contratti per l’insediamento di queste basi sono stati rinnovati, tranne quello in Ecuador.
Tuttavia, la presenza militare nella base di Manta è stata facilmente rimpiazzata con le nuove basi in Colombia, in seguito alla firma del nuovo accordo con Washington.

Basi che permettono agli Stati Uniti un controllo regionale a livello aereo e marittimo.

Inoltre è facile ipotizzare che queste basi possano venire utilizzate anche come “ponti” verso il mercato americano di consumo degli stupefacenti, come avviene del resto con la base americana in Kirghizistan, accusata di fare da corridoio per il passaggio dell’oppio afghano verso i mercati occidentali.

La Colombia praticamente si trasforma così in una autentica portaerei americana in Sud America e naturalmente qualsiasi movimento sociale organizzato che voglia dare un briciolo di interesse nazionale alla politica colombiana è un pericolo per i progetti americani, che hanno per questo motivo l’interesse di difendere lo status quo, ovvero il governo Uribe e la prolungazione del conflitto tra FARC e paramilitari, sotto cui celare la scomparsa degli oppositori politici e sociali.

Per gli americani la presenza di governi amici nel continente americano è fondamentale per poter continuare a proporsi all’esterno come potenza marittima e potere dunque giocare un ruolo di dominante anche in Eurasia, dove si giocano le sorti per il controllo delle risorse energetiche e del mondo nel XXI secolo.

Dalle prossime elezioni uscirà il nuovo Presidente della Colombia, tra Santos, l’uomo di Uribe e degli Stati Uniti, e Mockus, che invece in caso di vittoria dovrebbe seguire una política più indipendente e di distensione con i vicini.

Difficile comunque che cambi molto, soprattutto perchè gli investimenti militari degli USA sono notevoli ed è difficile che vengano intralciati.

* Sergio Barone è dottore in  Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

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