Nella foto: Saad Hariri e Bashar al-Assad
Come affermato da Metternich, il Libano è un paese piccolo geograficamente ma importante a livello internazionale. Eppure tale sua rilevanza ha sempre dovuto, e continua, a fare i conti con le vicissitudini interne, sintomo e spettro di una realtà variegata e sempre sul filo dell’equilibrio.
Storicamente, la situazione libanese è sempre stata caratterizzata da una serie di fattori cronicamente ripetitivi: frammentazione, divisioni, subalternità regionale, ricerca incessante di un ruolo e soprattutto di un’identità, contrapposizioni spesso fondate su considerazioni settarie e confessionali, influenze di potenze regionali ed internazionali su un processo democratico che stenta a trovare la sua armonia.
Le elezioni del giugno 2009 hanno segnato la nascita di un governo di unità nazionale tra le forze schierate col primo ministro Saad al-Hariri e quelle che ruotano attorno al movimento di Hezbollah, con il compito di trovare una via d’uscita da cinque anni di turbolenze politiche e spargimenti di sangue. La “strana coppia” si trova insieme ad affrontare il panorama libanese, in un intreccio tra politica interna e politica estera, dopo l’assassinio di Rafik al-Hariri del 2005 e le tensioni tra la coalizione del 14 Marzo e il movimento sciita.
Elemento caratterizzante questa alleanza risulta il riassestamento dei rapporti ufficiali con la Siria, storico difensore e promotore di Hezbollah. Il Primo Ministro libanese, congiuntamente alla sua visita a Damasco, considerata un autentico successo, ha sostenuto la necessità di astenersi da critiche nei confronti della Siria, accordandole lo stesso rispetto garantito allo storico alleato saudita. L’apertura al forte vicino arabo, per quasi trent’anni traino e, allo stesso tempo, zavorra del paese dei Cedri, è da leggere come volontà di garantire sicurezza interna, sulla base di un vero e proprio coordinamento delle forze. I siriani vogliono valutare la capacità di Hariri di stabilire pieno controllo sui campi palestinesi in Libano per assicurarsi la vittoria contro il radicato gruppo terroristico di ispirazione qaedista, Fatih al-Islam, ripristinando l’ordine.
A ciò è da aggiungere l’intento siriano di coordinare gli sforzi in un Libano che, attualmente nel seggio a rotazione presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, avrebbe la possibilità di sostenere con vigore il pieno rispetto della risoluzione n.1559i. Una risoluzione che, secondo una lettura sostenuta anche dal ministro degli Esteri Ali al-Shami, richiede il disarmo esclusivamente per le milizie, laddove invece Hezbollah viene considerata un’organizzazione di resistenza. Posizione che riprende le promesse del governo libanese, espresse in uno statement definito con grande sforzo alla fine del 2009, secondo cui ci si impegnerà nel “protect and embrace” le armi di Hezbollah.
Il movimento sciita, dal canto suo, può godere di una posizione vantaggiosa, determinata dalla sua partecipazione al gabinetto governativo (all’interno del quale gode anche del potere di veto), nonostante non abbia ottenuto la maggioranza dei seggi, ma comunque la maggioranza del voto popolareii.
Il capo Hassan Nasrallah è impegnato a fare da tramite nelle relazioni tra la Siria e gli esponenti politici libanesi, a favore del ristabilimento di ponti che sembravano irreparabilmente distrutti. Fa particolare scalpore l’incontro, organizzato proprio da Hezbollah, tra il dirigente druso Walid Jumblatt e il presidente siriano Bashar al-Assad. Nel 2007 Jumblatt definì Assad “il dittatore di Damasco, un selvaggio, un prodotto di Israele, un bugiardo ed un criminale”. Lo scorso marzo ha chiesto scusa in diretta, ammettendo che quei commenti erano “disdicevoli ed insoliti” ed ha poi descritto l’incontro con il Presidente siriano come “eccellente, amichevole, onesto e molto positivo”. Mentre in passate dichiarazioni aveva sostenuto la necessità di una tregua con Israele per isolare un fragile Libano da conflitti regionali delicati, attualmente giura completa fedeltà alle cause panarabe. Compresa la resistenza armata per recuperare le fattorie di Sheba’a occupate da Israele, porzione di terra che è diventata uno dei motivi dell’incessante resistenza di Hezbollah.
Tuttavia, Nasrallah ha delle preoccupazioni di non poco conto, legate agli esiti dell’indagine condotta dal Tribunale Speciale delle Nazioni Unite per il Libano, creato per individuare e perseguire i responsabili dell’omicidio di Rafik al-Hariri e di altre figure anti-siriane. In effetti, Nasrallah ha ammesso che diversi membri dell’organizzazione sono stati interrogati dagli investigatori dell’ONU, ma ha dichiarato che essi sono stati convocati in qualità di testimoni, non di sospetti.
Se Hezbollah fosse davvero accusata d’implicazione nell’assassinio di Hariri ciò scuoterebbe, e non poco, la politica libanese. Da quando è stata creata l’indagine internazionale, il movimento ha combattuto per ostacolarla, ha messo in discussione la sua legittimità e ha biasimato la mancanza di sovranità libanese. Per ben due volte ha bloccato il governo su questioni riguardanti il Tribunale, a cui il Libano fornisce personale e, in parte, finanziamenti. Eppure, dopo cinque anni di lavoro, l’indagine sembra rivelarsi inconcludente e le accuse rivolte contro il movimento sciita vengono ritenute puramente mediatiche.
Ciò che più preoccupa Beirut è che qualsiasi possibile incriminazione di un membro del “Partito di Dio” condurrebbe ad una reale destabilizzazione del paese e ad un confronto duro e pericoloso con chi sostiene ancora la sua inaffidabilità, chiaro riferimento al capo cristiano delle Forze Libanesi (FL), Samir Geageaiii.
Valutando il ruolo di Geagea e del suo partito nel gabinetto Hariri, emerge la volontà di Hezbollah di mettere all’angolo un partito che, dopo l’obiettivo elettorale comune con Hariri nel 2005, legato all’ottenimento del potere e all’autonomia libanese dalla Siria, non sembra rispecchiare più gli orientamenti della maggioranza di governo. Ed in effetti, Hezbollah sta maturando l’idea di un cambio all’interno della formazione governativa, rimpiazzando i due ministri di FL con esponenti di quella che viene chiamata coalizione dell’8 Marzoiv, i cui resti sono confluiti nel nascente Fronte di opposizione nazionale guidato dall’ex primo ministro Omar Karameh.
La nuova coalizione dovrebbe comprendere importanti politici sunniti, come il sindaco di Sidone, Abdul Rahman Bizri, ma anche il dirigente druso Wiam Wahhab; Karameh inoltre spera di poter coinvolgere anche il Partito Comunista Libanese e il Partito Social-Nazionale Siriano (SSNP). Secondo fonti libanesi, non farebbero parte del gruppo né il Marada Mouvement di Suleiman Franjiyeh, né il Movimento Patriottico Libero di Michel Aoun.
Karameh descrive il ruolo di questa formazione come quello di un governo fantasma che, secondo un sistema di checks and balances, possa vigilare su ogni ministro del governo Hariri. Voci a sostegno dell’attuale Primo Ministro ritengono che tale creazione sia la risposta pressoché immediata alla riconciliazione politica avviata lo scorso marzo, dalla quale, ad eccezione del SSNP, i membri di tale gruppo sono stati esclusi.
Eppure è inevitabile domandarsi la portata e la durata di un tale fronte, che vorrebbe fare affidamento su un forte sostegno da parte della Siria. Come si porrebbe nei confronti di Hezbollah, data la forte alleanza tra i due dirigenti? In realtà, è possibile individuare un ruolo “da regista” proprio per l’organizzazione sciita: essa vuole interpretare ad ogni costo il ruolo di vero intermediario, e non solo, come precedentemente sostenuto, nei confronti del vicino siriano, ma percorrendo la tortuosa strada necessaria per avvicinare Hariri a figure sunnite di spicco, come Karameh, mantenendo, dal canto suo, relazioni distese con entrambi i fronti.
Ciò che più conta in questo momento è però il mantenimento di una totale armonia con Hariri, il quale è ben consapevole che essa influisce anche sui rapporti con una Siria che, recentemente, si è riavvicinata all’Arabia Saudita, storico difensore della coalizione del 14 Marzo, ed agli Stati Uniti, con la riapertura della Scuola Americana a Damasco, chiusa nel 2008 dopo le operazioni delle forze speciali statunitensi che uccisero civili siriani ai confini con l’Iraq.
È però un recente scontro tra Stati Uniti, sulla base di accuse israeliane, e Siria, avente oggetto l’eventuale trasferimento di armi, in particolar modo di sistemi di missili balistici, come lo Scud, a favore di Hezbollah, che rinvigorisce la sintonia del governo di unità nazionale libanese.
Il primo ministro Hariri si è espresso a sostegno delle smentite siriane durante la visita di stato effettuata in Italia. Egli ha rilevato una similitudine tra gli atteggiamenti attuali di Israele e quelli tenuti dagli Stati Uniti nel caso delle armi di distruzione di massa contro Saddam Hussein, preludio all’invasione dell’Iraq nel 2003. Una nuova guerra tra Hezbollah ed Israele rappresenterebbe la totale distruzione per il Libano e rovina per tutti gli investimenti stranieri e per la stabilità politica ed economica promessa dal governo. Tanto più che né Siria né Arabia Saudita vogliono una guerra.
In effetti, i sauditi sperano che, dopo anni di turbolenze inaudite, il Libano possa stabilizzarsi, grazie anche all’equilibrio garantito dal governo combinato tra Hariri ed Hezbollah. Dal canto suo, il Primo Ministro libanese ha già chiesto ai propri diplomatici in Turchia, paese che condivide con il Libano il seggio a rotazione nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di garantire un rifugio al movimento sciita in caso di ulteriore guerra con Israele. E molti in Libano temono che questo sia il pretesto atteso per giustificare un nuovo attacco.
Come affermano numerosi analisti militari, però, Hezbollah non avrebbe bisogno di Scud, dato il minor grado di sofisticatezza e la minor accuratezza di tali missili rispetto a quelli in dotazione, già capaci, grazie alla loro gittata, di colpire il cuore di Israele.
Tale scontro, aldilà delle implicazioni internazionali e dei rischi di conflitti deleteri per la regione, dimostra ancor più la fondatezza dell’armonia interna tra le due facce della coalizione governativa libanese. Una “luna di miele” destinata a durare, però, solo con l’impegno di entrambi i fronti a costruire le basi per la rinascita di un paese, costantemente minacciato e, suo malgrado, al centro di rivalità regionali ed internazionali.
Saranno davvero giorni migliori per il Libano? Lo spettro di un ritorno al passato, condizionato da interventi esterni, è sempre dietro l’angolo.
* Chiara Felli è dottoressa in Relazioni internazionali (Università LUISS “Guido Carli” di Roma)
i Tale risoluzione, adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 2 settembre 2004 ha sette punti fondamentali, tra cui lo scioglimento e il disarmo di tutte le milizie libanesi e non presenti in Libano.
ii Un bilancio delle elezioni libanesi, www.medarabnews.com , 17 giugno 2009
iii L’unico membro della coalizione del 14 Marzo, in origine anti-siriana, a sostenere tale posizione.
iv Tale coalizione prende il nome dal giorno in cui migliaia di manifestanti riempirono la piazza Riad al-Solh, nel cuore di Beirut, per dimostrare il proprio sostegno alla Siria. Era composta dagli sciiti di Hezbollah e di Amal, e dal generale cattolico-maronita Michel Aoun, leader del Movimento Patriottico Libero.