Gli economisti non finiscono mai di sorprendere nel loro sfrenato economicismo sulla cosiddetta crisi greca, con qualche guizzo talvolta di verità, seppure parziale, similmente allo sragionamento tra ubriachi, quando emerge improvvisamente un’ idea somigliante ad una verità logica. E del resto, qualche straccio di ragione, sul casino finanziario messo in atto dal paese dominante (Usa), dovrà pur emergere onde girare ad un popolo(i) sempre più impaurito e frastornato dai funesti bellimbusti televisivi che fanno da contorno ai logorroici e starnazzanti rumori di fondo di ogni personaggio politico.
Ormai tutti, o quasi, tendono a confermare un giudizio che la crisi greca non è economica ma politica; un capovolgimento ideologico che non spiega quanto semmai ripropone un’idea di economia con un contorcimento, ed un imbroglio in una matassa economica divenuta sempre più vischiosa, che intende ammantarsi di un ragionamento politico.
Quando, per esempio, l’economista Paolo Savona, sul “Messaggero” del 29/04/’10 fa appello ai due maggiori leader occidentali, Obhama e Merkel perché si pongano alla guida del mondo occidentale come una più forte leadership politica, senza la quale, dalla crisi non si esce; oppure, come scrive Davide Giacalone, su “Libero”, quando afferma che i problemi posti dalla Grecia sono marginalmente economici e soltanto politici, e la cui soluzione può essere riassunta dai seguenti punti: 1) l’euro è una moneta senza avere alle spalle un’autorità politica, né tantomeno un quella di una Banca Centrale europea; 2) Il “mondo viaggia ad una velocità superiore rispetto a quella delle istituzioni che amministrano i Paesi che lo compongono”; 3) La Grecia va in bancarotta con un accelerazione impressa dal declassamento emesso all’agenzia americana “Standard & Poor’s; 4) La Grecia non è vittima di un complotto speculativo, ma dall’aver imbrogliato i bilanci; 5) “Non si devono considerare negativi tutti gli egoismi nazionali, ma lo divengono quando, anziché rispondere ad esigenze geostrategiche, vengono a galla per ragioni di cucina elettorale”….
E’ in questa invocazione della politica che si afferma il vecchio motto gattopardesco, “tutto cambi perché nulla cambi”, e nella fattispecie, la permanenza del paradigma fondamentale del rapporto di dominio del Capitalismo Usa nei confronti dell’Europa, la cui “ Crisi Greca” rappresenta semplicemente la punta dell’iceberg del vecchio continente, nella sua deriva non solo economica. Solo una “Politica” rivolta ad una modifica dei rapporti di dipendenza nei confronti del paese dominante, può garantire un riordino delle connessioni interne delle formazioni economiche sociali, che sottendono, come parti integranti, le peculiarità del dominio Usa creatosi; è quella che un tempo veniva definita “una politica al posto di comando”, che può garantire la permanenza di una nuova forza politica alternativa, da mettere in campo, onde avviare un nuovo processo storico, con l’obbiettivo dichiarato di un ingresso “multipolare”; non senza escludere, nuovi strumenti di analisi, fondamentali per ogni navigazione geopolitica, la cui difesa ad oltranza degli interessi nazionali, può rappresentare il miglior strumento di viaggio per una verifica costante di ogni corretta direzione.
Con un interrogativo storico in sospeso, o quantomeno non ricercato e/o non risolto dagli storici del politicamente corretto: il perché, i governi della sinistra hanno portato alla bancarotta gli Stati da essi governati, dalla fine dell’Ottocento e fino ad oggi; storie nazionali dense di corruzione e di sangue e profondamente segnate dai drammatici passaggi improvvisi dai governi della sinistra (giolittiana) al fascismo, e/o dalla repubblica socialdemocratica di Weimar al nazismo, e ai giorni nostri, ai “default” dei governi delle sinistre di Grecia e Spagna.
Un quesito che fa riferimento a gran parte della storia dei capitalismi occidentali contemporanei, ed in particolare al Capitalismo Borghese europeo, quando quest’ultimo entrò, fin dai primi del Novecento, entro il “cono d’ombra” del Capitalismo Manageriale Usa; e la cui diffusione si sviluppò in sintonia, con i governi delle sinistre, con l’idea forza di quest’ultime che il frazionamento estremo e diffuso della proprietà societaria del Capitalismo Manageriale rappresentasse una “democrazia economica di massa”: una sorta di archetipo sociale, di una più spinta “Socializzazione Finanziaria”, vera anticamera del Socialismo.
Gli “scudi” economici, posti dal fascismo e dal nazismo, nei confronti di quelle prime devastazioni finanziarie ed economiche, furono i “Capitalismi di Stato” che rappresentarono l’antidoto (per una breve fase storica) al dominio Usa in atto che, dal crollo di “Wall Street” (1929-32) , assunse effetti sempre più dirompenti per l’intera economia mondiale.
I Capitalismi di Stato lasciati in eredità, nell’immediato secondo dopoguerra con la vittoria Usa, sui, fascismo in Italia (vedi Iri) e nazismo in Germania (vedi Capitalismo renano), e per citare qualche altro paese, il tipo di capitalismo francese con la pianificazione tecnocratica “dell’ Ecole Polytechnique, e/o del planismo del Belgio,… rappresentarono un’insieme di formazioni sociali più adatte a commistioni con il Capitalismo manageriale Usa, grazie ad un management statalista- politico esteso allo “ Stato Sociale” (Welfare) e/o gestione (politica) della “spesa pubblica” di derivazione Keynesiana che, d’altro canto, non fu prese minimamente in considerazione in Usa per non indebolire la sua competizione come paese dominante.
E del resto, anche in Italia vigevano regole non scritte per le Destre-Storiche perché rappresentassero, elettivamente, i governi “ del rigore, e del risparmio, e/o in loro alternanza, i governi delle Sinistre delle politiche sociali (o della Spesa Pubblica), onde rimuovere, a loro volta, le conflittualità e i contrasti tra dominanti – dominati; con conseguenze, per questi ultimi, non da poco, di ottuse e reiterate incapacità nel difendere gli interessi nazionali, come vere e proprie “Quinte Colonne,” occupati a spendere “a pioggia” piuttosto che garantire i finanziamenti selettivi alle proprie industrie più competitive.
* Gianni Duchini è collaboratore di “Conflitti e strategie”